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La domenica di Ferragosto è stata la prima volta che sono andata a Kibera.
Il lunedì avremmo cominciato a lavorare e il giorno prima siamo andati a fare un sopralluogo per vedere il posto.
Non avevo visto ancora molto di Nairobi. A posteriori ho scoperto che Nairobi, non è la vera Nairobi. È il risultato di quello che i Kenyani ricchi e gli stranieri (cioè una minima parte della popolazione) vogliono far passare per una città moderna e benestante.
Ma kibera è li, è dentro la città, è le viscere della città. Lì pulsa la vita di un milione di persone (una delle più grandi slum al mondo, 300.000 persone per kmq) che devono, in qualche modo, arrivare al giorno dopo.
Mi ricordo benissimo la sensazione che ho avuto il primo giorno che ho messo piede in una favela di Salvador. Mi era servito un po’ per riprendermi. E pensavo di essere preparata allo “spettacolo”. Invece no. Forse perché a certe cose, non si può mai essere preparati.
L’edificio in cui lavoriamo è all’estremità di una via che costeggia Kibera. Per cui per arrivarci, si passa in mezzo a questo stradone di almeno un paio di kilometri. Per tutto il tragitto non credo di aver detto una parola. Descrivere il posto è abbastanza complicato. (vorrei sempre fare tante foto. Ma un po’ ho paura. Un po’ mi vergogno. In fondo, non c’è niente da fotografare). La via era un susseguirsi di baracche (pochissime in muratura) adibite ad esercizi commerciali: c’è il parrucchiere, il fruttivendolo, quello che vende scarpe, quello che le lucida, quello che vende pannocchie, c’è il negozio (si può chiamare negozio?) di cellulari, c’è quello che vende vestiti usati, ci sono i pub, ci sono gli hotel. Ma, non c’è nulla e dico nulla che ti ricorda un parrucchiere, un pub o un fruttivendolo per come noi siamo abituati ad intenderlo. C’è gente per strada, gente seduta che, semplicemente, non fa niente.
Questo è stato il primo impatto. Perché poi, lavorandoci giorno dopo giorno (ormai da tre settimane), la sensazione è, se possibile ancora peggiore.
Comunque. Dopo un paio di km così, arriviamo quasi alla fine della strada. Il quartiere di Kibera si chiama Kianda. La strada è un po’ in salita. E dal nulla spunta una recinzione e un cancello chiuso davanti al quale si ferma il taxi. Entriamo in questa oasi nel deserto. Una cattedrale nel nulla. Si tratta di un edificio bianco, molto spartano, ma solido e in muratura, con un tetto, e i bagni. È stato donato alla comunità di Kianda da due italiani. L’hanno finito di costruire pochi mesi fa. Ci sono 4 aule, con banchi e sedie. Noi lavoriamo qui. Recintati, come sempre. L’edificio è un po’ rialzato rispetto allo slum. Per cui si ha una panoramica che lascia senza fiato. Una infinità di casupole, baracche non so neanche io come definirle, tutte lamiere in ferro arrugginito, che formano un’unica macchia marrone che si perde a vista d’occhio.
Tutti i giorni sto a kibera dalle 9 alle 4. E osservo, il più possibile. Osservo i bambini. A Kibera ci sono circa 60.000 orfani a causa dell’Aids. I bambini giocano nello spiazzo di terra davanti a noi, ininterrottamente. Non vanno a scuola, non vanno a casa per pranzo, ammesso che abbiano una casa. Si rotolano nel fango. Vivono nell’immondizia. Kibera è una discarica, non esiste il senso del buttare l’immondizia nel secchio, visto che non esistono cassonetti. Il terreno è il cassonetto, dove poi si cammina, dove poi i bambini giocano. Tutti hanno la televisione, ma nessuno ha l’acqua. Le case, si fa fatica a crederci, sono tutte in affitto. Cioè: qualcuno paga mensilmente per viverci.
Non esistono neanche bagni, non so se mi spiego.
I ragazzi con cui lavoriamo (molti sono di Kibera) sono fantastici. Parlando con loro sto imparando molte cose sui problemi politici del Kenya, i problemi di etnia (esistono più di 30 tribù), i problemi economici.
La cosa più triste che ho notato è che, in fondo, ci si abitua a tutto. In qualche modo, purtroppo ci si abitua. E allora Kibera sembra una realtà che sta li e che è senza tempo, immodificabile.
“Non è un paese per vecchi”è la considerazione che faccio più spesso. Non ho mai visto un anziano. Ed è una considerazione scoraggiante.
Vi penso tanto, anche perché, come potete immaginare, mi mancano le spensierate serate EEBL!